Data pubblicazione: mercoledì 9 ottobre 2002
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RUBRICHE - SAGGI DI STORIA CALABRESE
PROCESSIONE PENITENZIALE IN MONTELEONE ALLA FINE DEL ‘600
La città, già colonia greca e municipio romano con i nomi di Hipponion e di Vibo Valentia, fu riedificata nel 1235 per volontà dell’imperatore Federico II° di Svevia che diede incarico al proprio luogotenente Matteo Marcofava che dal proprio stemma l’avrebbe chiamata Monteleone. Il decreto reale del 4 gennaio 1928 le diede il nome latino di Vibo Valentia ( 1). La cronaca della processione penitenziale organizzata dai frati del convento domenicano Dopo vespere del 15 febbraio 1693, quell’anno seconda domenica della Quaresima, è riportata nelle deposizioni rese tra il 9 marzo e l’8 aprile successivi al delegato vescovile u. i. d.r Antonino Schinni parroco della chiesa dello Spirito Santo e vicario foraneo della città ( 2). I nove esaminati erano i mastri Diego Gallè sarto e Carlo Signoretta, rispettivamente di 25 e 26 anni, i sacerdoti Michele De Majo (insegnava a’ figlioli humane lettere, e buone Costumi) e Tommaso Iorfida, di 36 e 37 anni, i chierici Gennaro Sergi (sacrista della chiesa arcipretale di Santa Maria Maggiore e San Leoluca) e Giulio Rubino (zio paterno dell’omonimo noto pittore, anch’egli chierico coniugato), di 27 e 40 anni, il diciassettenne Francescantonio Sorbilli, Silvestro Capomolla (a. 22) e Luca Fortuna entrambi analfabeti. Non furono riportati il mestiere del Signoretta (analfabeta) e l’età del Fortuna. Si apprende che nella città erano costituiti gruppi di battenti, di Sangeronimi e di altre varie mortificazioni, dei quali nessuno degli storici locali aveva tramandato notizia. Probabilmente la cittadinanza era atterrita per le scosse di terremoto che l’11 gennaio precedente avevano distrutto la città di Catania e danneggiato altri centri siciliani, e che continuavano ad essere avvertiti anche in Calabria ( 3). Quella sera di metà febbraio dalla chiesa dei Domenicani, l’attuale “Valentianum”, si snodò una processione di penitenti che percorse il tradizionale itinerario attraverso le strade della città. Intervennero un gran numero di battenti, Cioè Vestiti di Confrati, accappucciati, Con le spalle nude, che si battevano, a sangue certamente con le discipline. Incedeva un altro gruppo di penitenti denudati, al punto che li parea il petto Tutto, le Coscie, e gambe con piedi scalzi, et per meglio dire solo erano coperte le parte Vergognose, Con Calzonelli Curti, e tutta l’altra parte di Corpo Ignudo che solo Teneano, un panno russo sopra le spalle, e si battevano nelli braccia, Coscie, e petto, Con Certi suveretti Caricati di pungenti aculei, che erano chiamati Sangelormi nel linguaggio dialettale ( 4). Seguivano due gruppi di penitenti, alcuni con i piedi scalzi e le braccia legate ad un legno a forma di croce ed altri con gioghi di bovi accollati, nel mezzo pendevano pietre pesanti, e tante altre persone con varij mortificat(io)ni non specificate. Nella processione erano portate anche Tre vari seù demonstrationi di soggetti diversi. La prima di queste era una cassetta a forma di piramide con vetri trasparenti, contenente alcune reliquie di santi appese a fili di seta che oscillando si urtavano l’una con l’altra, delle quali una aveva la lunghezza d’un palmetto In Circa sottile che sembrava il braccio di un bambino. Sull’altra vara, preceduta da molti penitenti, era posta una statua di Cristo con un palleo russo di sopra che teneva certi fulmini Infocati in una mano. La processione era chiusa dalla statua della Madonna del Rosario vestita di nero, e luttoso ammanto, che era preceduta dai religiosi domenicani che portavano molti lumi. L’episodio che indusse la curia vescovile ad ordinare l’inchiesta si verificò alla fine della processione, quando la vara delle reliquie fu portata nella chiesa arcipretale di Santa Maria Maggiore e San Leoluca quando passò davanti a questa prima del rientro nel vicino convento domenicano dal quale era partita. La discussione ebbe origine da una protesta dell’arciprete Onofrio Sorbilli che aveva dato ascolto ai sussurri di alcuni fedeli, secondo i quali qualcuna delle reliquie appese nella vetrina piramidale poteva appartenere al corpo del protettore San Leoluca. Probabilmente si riferivano a quel pezzo della lunghezza di un palmetto che uno degli interrogati aveva dichiarato di essergli sembrato il braccio di un bambino. Nella popolazione circolava da tempo la voce che il corpo di San Leoluca era stato rinvenuto durante i lavori di scavo delle fondazioni della chiesa del convento di San Domenico. Il chierico Giulio Rubino affermò di sapere che il sac. Domenico Marzano più tempo fa teneva una cassetta di reliquie di S(an)ti in sua casa e per suo scrupolo l’aveva consegnata ai Domenicani perché la custodissero nella propria chiesa. Lo stesso Rubino osservò che le reliquie erano portate con poca decenza senza pallio seu baldacchino mà ordinariam(en)te come fosse qualche Statua senza reliquie. La notizia della presenza di quella reliquia infervorò gli animi dei fedeli riuniti, perché poteva essere esposta alla venerazione nella cappella che si era in progetto di erigere quando sarebbe stata portata a compimento la ricostruzione della chiesa iniziata l’anno 1680 durante il mandato dei sindaci Guglielmo Mazza e notaio Michelangelo Lombardo ( 5). L’arciprete chiese ai padri domenicani di esibire le autentiche di quelle reliquie, onde poterne stabilire la provenienza. Richiesto, arrivò il vicario foraneo d. Antonino Schinni che tentò di pacificare le parti contendenti. La cassetta delle reliquie fu estratta fuori dalla chiesa arcipretale con forza e violenza dopo l’arrivo di alcuni padri domenicani accompagnati da loro sostenitori, e fu portata nella vicina chiesa di San Domenico della quale si provvide con sollecitudine a chiudere la porta. Sull’accaduto le deposizioni degli esaminati furono confuse, e probabilmente anche reticenti chi riguardo ad alcuni particolari e chi ad altri. Si trovavano nella chiesa arcipretale il chierico Sergi per esser sacrestano di d(ett)a chiesa che attendeva a q(ua)nto Era di necessario, il chierico Rubino, il Fortuna e il Sorbilli. Quattro degli interrogati stavano fuori, e qualcuno anche abbastanza lontano. Il sac. Iorfida era accomodato sui sedili di fabrica addossati ai muri esterni della chiesa, il sac. De Majo dichiarò di aver sentito dire, mastro Diego Gallè era davanti alla chiesa di San Giuseppe (sorgeva dove ora è il palazzo della SIP), mastro Carlo Signoretta era aggrappato alla colonna sormontata dalla croce elevata nella piazza. Non fu specificato dove si trovava il Capomolla. In una processione penitenziale tanto largamente partecipata non è comprensibile la mancanza di riferimenti alla presenza delle confraternite della città, ed in particolare di quella del Rosario della quale la statua della titolare procedeva al posto di preminenza dopo la cassetta delle reliquie ed il Cristo con i fulmini nella mano.
n o t e
1) F. ALBANESE, Vibo Valentia nella sua storia, Vibo Valentia 1975, p. 194. 2) ARCHIVIO STORICO DIOCESANO di MILETO, cartelle Monteleone, processi civili, fogli non numerati; F. ALBANESE, Vibo …, p. 351. Il parroco Antonino Schinni resse la parrocchia dello Spirito Santo dal 1683 al 1718; A. TRIPODI, Presenza domenicana a Monteleone, ora Vibo Valentia, dal manoscritto. Il convento dei Domenicani, eretto con bolla del papa Paolo III dell’8 febbraio 1544 su richiesta deliberata dalla cittadinanza nel publico parlamento del 14 giugno 1543, fu soppresso con decreto reale del 7 agosto 1809. 3) M. BARATTA, I terremoti d’Italia, Torino 1901 rist. anast. Bologna 1979, p. 171. 4) Si chiamavano Sangilormi od anche Sangeronimi i gruppi di penitenti che partecipavano alle processioni con il minimo di indumenti addosso. Il nome si rifà alla classica iconografia di San Girolamo nel deserto. 5) F. ALBANESE, Vibo …, pp. 369-370.
Antonio Tripodi, Diacono
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