Data pubblicazione: mercoledì 15 gennaio 2003
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RUBRICHE - SAGGI DI STORIA CALABRESE
NATALE … D’ALTRI TEMPI A DASA’
Prima che sul mercato irrompessero prepotentemente le tante varietà di panettone e di spumante, le feste natalizie dei nostri maggiori erano allietate dai fichi secchi e dalle noci sempre accompagnati dal bicchiere di buon vino. La prelibatezza era rappresentata dai fichi imbottiti con noci e con l’aggiunta di un pezzetto di odoroso mandarino ed infornati per farli amalgamare. Neanche e case e giardini erano stati invasi dal nordico albero di natale, brulicante di luci e dei riflessi prodotti dalle palline variamente colorate.
Il presepio
La settimana precedente il Natale, fino a tanti anni fa, in tutte le case si era affaccendati per la devozione del presepio, il quale era per l’autore la vetrina della creatività e … anche della disponibilità economica. In occasione della fiera dell’Immacolata, con svolgimento dal 6 al 9 dicembre, ognuno si era provveduto dei pastori di creta dagli abiti variopinti che i vari pasturari esponevano lungo la discesa davanti alla chiesa parrocchiale. Nel costruire il presepio si faceva largo impiego di sughero, onde preparare scenografiche montagne sulle cui ripide pareti si snodavano le stradine popolate dai pastori recanti i doni al neonato Bambino. La completezza era raggiunta con la presenza della cavalleria, cioè dei tre Magi ciascuno sul proprio cavallo preceduto da uno scudiero secondo il costume medioevale. Si diceva con orgoglio agli amici: chist’annu mient’a cavalleria ! - quest’anno aggiungerò i tre Magi sui cavalli! -. Lo spazio si popolava di personaggi e di gruppi riproducenti le scene pastorali che si potevano osservare quotidianamente nelle nostre campagne. Si preparava un ripiano per il gregge di pecore e di capre custodito da uno o più cani: il pagliaio per i pastori, e lo steccato per gli animali. Nel mezzo o da un lato stava l’immancabile mangiaquajiata, un pastore seduto sopra un tronco d’albero con una scodella di ricotta sulle ginocchia ed il cucchiaio di legno nella mano destra in atto di portarlo alla bocca. In una grotta un altro pastore dormiva tranquillamente, mentre u smaravijiatu con la mano alla fronte si riparava dal bagliore dell’angelo reggente il cartiglio con l’Annunzio vobis gaudium magnum nelle mani. Vicino c’era anche un altro pastore con le mani otto il mento appoggiate sul bastone, in atto di guardare le pecore e le capre al pascolo. Risulta abbastanza evidente che le tre scene non potevano verificarsi contemporaneamente. Non si può fare a meno di sottolineare vistosi falsi storici, quali il frate francescano con la bisaccia, il cacciatore col fucile nell’atto di sparare ad un uccellino tranquillo sopra un albero, o addirittura i carabinieri. Quanto ai doni portati dai pastori, le licenze erano di raggio abbastanza largo: se i piccoli pesci potevano essere pescati in un lago, non era razionalmente spiegabile la provenienza dei grossi tonni. E neanche i giardini di angurie erano di facile impianto in quella regione della Palestina. La cura minore era rivolta alla capanna della natività, che era sempre la stessa conservata da un anno per l’altro. In essa trovavano posto il bue e l’asinello, ed in mezzo ad essi sulla paglia si adagiava il Bambinello. Spesso, … per mancanza di spazio, San Giuseppe e la Madonna rimanevano fuori ai lati dell’entrata. Sopra si attaccava l’angelo col cartiglio Gloria in excelsis Deo. In alcuni presepi, sospesi con fili di ferro calanti dal soffitto, completavano la scena cori di angeli musicanti. Si racconta che una volta un gruppo era stato modellato di fresco, ed è caduto durante il canto del Te Deum laudamus essendosi sfilato il gancio che lo tratteneva. Nel passato a Dasà modellavano pastori di creta : lo scultore Nicola Corrado (Dasà, 1802 ? – 01/09/1856) ed il nipote omonimo ex-filio (Dasà, 07/04/1869-29/07/1949), il decoratore-apparatore Michele Valentino (Dasà, 04/04/1866-01/04/1945), mastro Giosuè Scopacasa (Dasà, 31/12/1884-29/07/1950), l’inta- gliatore Michele Condò (Dasà, 20/11/1911-San Costantino Calabro, 24/06/1998), mastro Pasquale Galiano (Dasà, 04/02/1929-viv.), Giuseppe Pasquino (Dasà, 14/01/1931- emigrato negli USA), Pasquale Manno (Dasà, 14/12/1932-viv.), p. Giambattista (al secolo Nicola) Stramandinoli o. f. m. (Dasà, 25/03/1916-Napoli, 21/07/1980). Il gruppo di casette per rappresentare la cittadina di Betlem non era ritenuto indispensabile, tant’è vero che spesso mancava. Si andava provvisti di ceste a raccogliere il muschio nei castagneti poco distanti dal paese, rifornendosi della sabbia necessaria lungo la strada del ritorno. La novena era officiata con la celebrazione delle messe all’aurora nella chiesa filiale della Consolazione, come tuttora avviene, onde consentire ai contadini di recarsi nelle campagne ed agli artigiani di lavorare nelle proprie botteghe. La sera della vigilia per mettere il Bambino nella capanna si faceva la spola da una casa all’altra di amici e parenti, ed il mancato invito non era raro che provocasse bronci o addirittura offese. Il rituale era dovunque lo stesso : al bambino più piccolo della famiglia si poneva sulle spalle uno stretto e lungo asciugamani di lino bianco con ricca frangia sui lati corti, che sostituiva l’omerale dl sacerdote nella chiesa, e poi gli veniva dato nelle manine il Bambinello che deponeva tra il bue e l’asinello alla fine del canto del Te Deum laudamus. Poi mentre la madre o la nonna accendevano la lampada ad olio davanti alla capanna, gli intervenuti consumavano noci e fichi secchi alternando le alzate di gomito con strofe di nenie natalizie : E lu povaru mulinaru non ebbe atru di portare. Ti portau la farinella pe bbidire ‘ssa facci bella ! -Il povero mugnaio non ha avuto altro da portarti. Per vedere il tuo bel viso ti ha portato un sacco di farina ! –
Pitti e curujicchi La sera del ventitre dicembre le donne della famiglia avevano il loro da fare per vagliare con le frisare da un lato la farina di grano e dall’altra quella di granoturco. La prima serviva per la pasta de i curujicchi, voce dialettale per indicare le zeppole, e l’altra per i pitti che potevano essere con la sarda all’interno. La mattina di giorno ventiquattro, vigilia di Natale, di buon’ora aveva inizio la frittura. Prima di recarsi al lavoro, o mentre davano gli ultimi ritocchi al presepio, gli uomini non ne rifiutavano l’assaggio innaffiando con l’immancabile bicchiere di vino. Quando si svegliavano, i bambini vedevano illuminata la cucina, e l’odore del fritto accendeva il loro entusiasmo. Si alzavano dal letto, e correvano vicino al piatto nel quale la mamma poneva le croccanti curujicchi man mano che le toglieva dalla padella. Nei tempi passati pitti e curujicchi erano le specialità alimentare che contrad- distinguevano il Natale.
I jejari La sera della fine dell’anno gruppi di ragazzi chiamati dialettalmente jejari giravano per le buie strade del paese accompagnando i loro canti corali con la musica … della percussione di zappe o di altri arnesi di lavoro. Si sentiva cantare : ann’e buon annu, e nu buonu capudannu ! quantu filatu facistiv’aguannu ? La domanda dell’ultimo verso era rivolta alle donne che di sera, dopo aver messo a letto i bambini, al braciere filavano la lana o la ginestra per preparare i gomitoli con i quali in seguito avrebbero confezionato maglie e calze per i componenti della famiglia. Passando per le strade, i jejari bussavano alle porte delle abitazioni, ed alcune si aprivano per farli entrare. Si offrivano ad essi fichi e noci e qualche bicchiere di vino. La televisione, intrattenendo in casa i ragazzi, ha decretato la fine delle chiassate dei jejari.
Antonio Tripodi, Diacono
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