Data pubblicazione: lunedì 9 dicembre 2002
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DOCUMENTI DEL MAGISTERO - DOCUMENTI DEL MAGISTERO
Lettera Enciclica Dives In Misericordia
LETTERA ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II SULLA MISERICORDIA DIVINA
Venerati Fratelli, carissimi Figli e Figlie, salute e Apostolica Benedizione!
CAPITOLO I
CHI VEDE ME, VEDE IL PADRE (cfr Gv 14,9)
1. Rivelazione della misericordia
«Dio ricco di misericordia» (Ef 2,4) è colui che Gesù Cristo ci ha rivelato come Padre: proprio il suo Figlio, in se stesso, ce l'ha manifestato e fatto conoscere. (Gv 1,18) (Eb 1,1) Memorabile al riguardo è il momento in cui Filippo, uno dei dodici apostoli, rivolgendosi a Cristo, disse: «Signore, mostraci il Padre e ci basta»; e Gesù così gli rispose: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre». (Gv 14,8) Queste parole furono pronunciate durante il discorso di addio, al termine della cena pasquale, a cui seguirono gli eventi di quei santi giorni durante i quali doveva una volta per sempre trovar conferma il fatto che «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo». (Ef 2,4)
Seguendo la dottrina del Concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l'enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all'uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un'esigenza di non minore importanza, in questi tempi critici e non facili, mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre, che è «misericordioso e Dio di ogni consolazione». Si legge infatti nella costituzione Gaudium et spes: «Cristo, che è il nuovo Adamo... svela... pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»: egli lo fa «proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore». Le parole citate attestano chiaramente che la manifestazione dell'uomo, nella piena dignità della sua natura, non può aver luogo senza il riferimento--non soltanto concettuale, ma integralmente esistenziale a Dio. L'uomo e la sua vocazione suprema si svelano in Cristo mediante la rivelazione del mistero del Padre e del suo amore.
È per questo che conviene ora volgerci a quel mistero: lo suggeriscono molteplici esperienze della Chiesa e dell'uomo contemporaneo; lo esigono anche le invocazioni di tanti cuori umani, le loro sofferenze e speranze, le loro angosce ed attese. Se è vero che ogni uomo, in un certo senso, è la via della Chiesa, come ho affermato nell'enciclica Redemptor hominis, al tempo stesso il Vangelo e tutta la tradizione ci indicano costantemente che dobbiamo percorrere questa via con ogni uomo cosi come Cristo l'ha tracciata, rivelando in se stesso il Padre e il suo amore. In Gesù Cristo ogni cammino verso l'uomo, quale è stato una volta per sempre assegnato alla Chiesa nel mutevole contesto dei tempi, è simultaneamente un andare incontro al Padre e al suo amore. Il Concilio Vaticano II ha confermato questa verità a misura dei nostri tempi.
Quanto più la missione svolta dalla Chiesa si incentra sull'uomo, quanto più è, per cosi dire, antropocentrica, tanto più essa deve confermarsi e realizzarsi teocentricamente, cioè orientarsi in Gesù Cristo verso il Padre. Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l'antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell'uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del magistero dell'ultimo Concilio. Se dunque nella fase attuale della storia della Chiesa, ci proponiamo come compito preminente di attuare la dottrina del grande Concilio, dobbiamo appunto richiamarci a questo principio con fede, con mente aperta e col cuore. Già nella citata mia enciclica ho cercato di rilevare che l'approfondimento e il multiforme arricchimento della coscienza della Chiesa, frutto del medesimo Concilio, deve aprire più ampiamente il nostro intelletto ed il nostro cuore a Cristo stesso. Oggi desidero dire che l'apertura verso Cristo, che come Redentore del mondo rivela pienamente l'uomo all'uomo stesso, non può compiersi altrimenti che attraverso un sempre più maturo riferimento al Padre ed al suo amore.
2. Incarnazione della misericordia
Dio, che «abita una luce inaccessibile», parla nello stesso tempo all'uomo col linguaggio di tutto il cosmo: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità». Questa indiretta e imperfetta conoscenza, opera dell'intelletto che cerca Dio per mezzo delle creature attraverso il mondo visibile, non è ancora «visione del Padre». «Dio nessuno l'ha mai visto», scrive san Giovanni per dar maggior rilievo alla verità secondo cui «proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato». Questa «rivelazione» manifesta Dio nell'insondabile mistero del suo essere - uno e trino - circondato di «luce inaccessibile». Mediante questa «rivelazione» di Cristo, tuttavia, conosciamo Dio innanzitutto nel suo rapporto di amore verso l'uomo: nella sua «filantropia». È proprio qui che «le sue perfezioni invisibili» diventano in modo particolare «visibili», incomparabilmente più visibili che attraverso tutte le altre «opere da lui compiute»: esse diventano visibili in Cristo e per mezzo di Cristo, per il tramite delle sue azioni e parole e, infine, mediante la sua morte in croce e la sua risurrezione.
In tal modo, in Cristo e mediante Cristo, diventa anche particolarmente visibile Dio nella sua misericordia, cioè si mette in risalto quell'attributo della divinità che già l'Antico Testamento, valendosi di diversi concetti e termini, ha definito «misericordia». Cristo conferisce a tutta la tradizione veterotestamentaria della misericordia divina un significato definitivo. Non soltanto parla di essa e la spiega con l'uso di similitudini e di parabole, ma soprattutto egli stesso la incarna e la personifca. Egli stesso è, in un certo senso, la misericordia. Per chi la vede in lui - e in lui la trova - Dio diventa particolarmente «visibile» quale Padre «ricco di misericordia».
La mentalità contemporanea, forse più di quella dell'uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l'idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l'uomo, il quale, grazie all'enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone ed ha soggiogato e dominato la terra. Tale dominio sulla terra, inteso talvolta unilateralmente e superfìcialmente, sembra che non lasci spazio alla misericordia. A questo proposito possiamo, tuttavia, rifarci con profitto all'immagine «della condizione dell'uomo nel mondo contemporaneo» qual è delineata all'inizio della Costituzione Gaudium et spes. Vi leggiamo, tra l'altro, le seguenti frasi: «Stando cosi le cose, il mondo si presenta oggi potente e debole, capace di operare il meglio e il peggio, mentre gli si apre dinanzi la strada della libertà o della schiavitù, del progresso o del regresso, della fraternità o dell'odio. Inoltre, l'uomo si rende conto che dipende da lui orientare bene le forze da lui stesso suscitate e che possono schiacciarlo o servirgli».
La situazione del mondo contemporaneo manifesta non soltanto trasformazioni tali da far sperare in un futuro migliore dell'uomo sulla terra, ma rivela pure molteplici minacce che oltrepassano di molto quelle finora conosciute. Senza cessare di denunciare tali minacce in diverse circostanze (come negli interventi all'ONU, all'UNESCO, alla FAO ed altrove), la Chiesa deve esaminarle, al tempo stesso, alla luce della verità ricevuta da Dio.
Rivelata in Cristo, la verità intorno a Dio «Padre delle misericordie» ci consente di «vederlo» particolarmente vicino all'uomo, soprattutto quando questi soffre, quando viene minacciato nel nucleo stesso della sua esistenza e della sua dignità. Ed è per questo che, nell'odierna situazione della Chiesa e del mondo, molti uomini e molti ambienti guidati da un vivo senso di fede si rivolgono, direi, quasi spontaneamente alla misericordia di Dio. Essi sono spinti certamente a farlo da Cristo stesso, il quale mediante il suo Spirito opera nell'intimo dei cuori umani. Rivelato da lui, infatti, il mistero di Dio «Padre delle misericordie» diventa, nel contesto delle odierne minacce contro l'uomo, quasi un singolare appello che s'indirizza alla Chiesa.
Nella presente enciclica desidero accogliere questo appello; desidero attingere all'eterno ed insieme, per la sua semplicità e profondità, incomparabile linguaggio della rivelazione e della fede, per esprimere proprio con esso ancora una volta dinanzi a Dio ed agli uomini le grandi preoccupazioni del nostro tempo.
Infatti, la rivelazione e la fede ci insegnano non tanto a meditare in astratto il mistero di Dio come «Padre delle misericordie», ma a ricorrere a questa stessa misericordia nel nome di Cristo e in unione con lui. Cristo non ha forse detto che il nostro Padre, il quale «vede nel segreto», attende, si direbbe, continuamente che noi, richiamandoci a lui in ogni necessità, scrutiamo sempre il suo mistero: il mistero del Padre e del suo amore? Desidero quindi che queste considerazioni rendano più vicino a tutti tale mistero e diventino, nello stesso tempo, un vibrante appello della Chiesa per la misericordia di cui l'uomo e il mondo contemporaneo hanno tanto bisogno. E ne hanno bisogno anche se sovente non lo sanno.
CAPITOLO II
MESSAGGIO MESSIANICO
3. Quando Cristo iniziò a fare e ad insegnare
Dinanzi ai suoi compaesani a Nazaret, Cristo fa riferimento alle parole del profeta Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore». Queste frasi, secondo Luca, sono la sua prima dichiarazione messianica, a cui fanno seguito i fatti e le parole conosciute per mezzo del Vangelo. Mediante quei fatti e quelle parole Cristo rende presente il Padre tra gli uomini. È quanto mai signifìcativo che questi uomini siano soprattutto i poveri, privi dei mezzi di sussistenza, coloro che sono privi della libertà, i ciechi che non vedono la bellezza del creato, coloro che vivono nell'afflizione del cuore, oppure soffrono a causa dell'ingiustizia sociale, ed infine i peccatori. Soprattutto nei riguardi di questi ultimi il Messia diviene un segno particolarmente leggibile di Dio che è amore, diviene segno del Padre. In tale segno visibile, al pari degli uomini di allora, anche gli uomini dei nostri tempi possono vedere il Padre. È signifìcativo che, quando i messi inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?», egli, rifacendosi alla stessa testimonianza con cui aveva inaugurato l'insegnamento a Nazaret, abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella», ed abbia poi concluso: «E beato è chiunque non si sarà scandalizzato di me!».
Gesù, soprattutto con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo è presente l'amore, l'amore operante, l'amore che si rivolge all'uomo ed abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità. Tale amore si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l'ingiustizia, la povertà, a contatto con tutta la «condizione umana» storica, che in vari modi manifesta la limitatezza e la fragilità dell'uomo, sia fisica che morale. Appunto il modo e l'ambito in cui si manifesta l'amore viene denominato nel linguaggio biblico «misericordia».
Cristo quindi rivela Dio che è Padre, che è «amore», come si esprimerà nella sua prima lettera san Giovanni; rivela Dio «ricco di misericordia», come leggiamo in san Paolo. Tale verità, più che tema di un insegnamento, è una realtà a noi resa presente da Cristo. Il render presente il Padre come amore e misericordia è, nella coscienza di Cristo stesso, la fondamentale verifica della sua missione di Messia, lo confermano le parole da lui pronunciate prima nella sinagoga di Nazaret, poi dinanzi ai suoi discepoli ed agli inviati di Giovanni Battista.
In base ad un tal modo di manifestare la presenza di Dio che è Padre, amore e misericordia, Gesù fa della misericordia stessa uno dei principali temi della sua predicazione. Come al solito, anche qui egli insegna innanzitutto «in parabole», perché queste esprimono meglio l'essenza stessa delle cose. Basta ricordare la parabola del figliol prodigo, oppure quella del buon samaritana, ma anche - per contrasto - la parabola del servo spietato. Sono molti i passi dell'insegnamento di Cristo che manifestano l'amore-misericordia sotto un aspetto sempre nuovo. È suffìciente avere davanti agli occhi il buon pastore, che va in cerca della pecorella smarrita, oppure la donna che spazza la casa in cerca della dramma perduta. L'evangelista che tratta particolarmente questi temi nell'insegnamento di Cristo è Luca, il cui Vangelo ha meritato di essere chiamato «il Vangelo della misericordia».
Quando si parla della predicazione, si apre un problema di capitale importanza in merito al significato dei termini ed al contenuto del concetto, soprattutto al contenuto del concetto di «misericordia» (in rapporto al concetto di «amore»). La comprensione di quel contenuto è la chiave per intendere la realtà stessa della misericordia. Ed è questo quel che per noi più importa. Tuttavia, prima di dedicare un'ulteriore parte delle nostre considerazioni a questo argomento, cioè di stabilire il significato dei vocaboli e il contenuto proprio del concetto di «misericordia», è necessario constatare che Cristo, nel rivelare l'amore - misericordia di Dio, esigeva al tempo stesso dagli uomini che si facessero anche guidare nella loro vita dall'amore e dalla misericordia. Questa esigenza fa parte dell'essenza stessa del messaggio messianico, e costituisce il midollo dell'ethos evangelico. Il Maestro lo esprime sia per mezzo del comandamento da lui definito come «il più grande», sia in forma di benedizione, quando nel Discorso della montagna proclama: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia».
In tal modo, il messaggio messianico sulla misericordia conserva una particolare dimensione divino-umana. Cristo - quale compimento delle profezie messianiche - divenendo l'incarnazione dell'amore che si manifesta con particolare forza nei riguardi dei sofferenti, degli infelici e dei peccatori, rende presente e in questo modo rivela più pienamente il Padre, che è Dio «ricco di misericordia». Contemporaneamente, divenendo per gli uomini modello dell'amore misericordioso verso gli altri, Cristo proclama con i fatti ancor più che con le parole quell'appello alla misericordia, che è una delle componenti essenziali dell'«ethos del Vangelo». In questo caso non si tratta solo di adempiere un comandamento o una esigenza di natura etica, ma anche di soddisfare una condizione di capitale importanza, affinché Dio si possa rivelare nella sua misericordia verso l'uomo: «I misericordiosi... troveranno misericordia».
CAPITOLO III
L'ANTICO TESTAMENTO
4. Il concetto di «misericordia» nell'Antico Testamento ha una sua lunga e ricca storia. Dobbiamo risalire ad essa, affinché risplenda più pienamente la misericordia che Cristo ha rivelato. Rivelandola sia con i fatti sia con l'insegnamento, egli si rivolgeva a uomini, che non solo conoscevano il concetto di misericordia, ma anche, come popolo di Dio dell'Antica Alleanza, avevano tratto dalla loro plurisecolare storia una peculiare esperienza della misericordia di Dio. Questa esperienza fu sociale e comunitaria, come pure individuale e interiore.
Israele, infatti, fu il popolo dell'alleanza con Dio, alleanza che molte volte infranse. Quando prendeva coscienza della propria infedeltà -e lungo la storia d'Israele non mancarono profeti e uomini che risvegliavano tale coscienza -, faceva richiamo alla misericordia. In merito, i libri dell'Antico Testamento ci riportano moltissime testimonianze. Tra i fatti ed i testi di maggior rilievo si possono ricordare: L'inizio della storia dei Giudici, la preghiera di Salomone all'inaugurazione del Tempio, una parte dell'intervento profetico di Michea, le consolanti assicurazioni offerte da Isaia, la supplica degli Ebrei esiliati, il rinnovamento dell'alleanza dopo il ritorno dall'esilio.
È significativo che i profeti nella loro predicazione colleghino la misericordia, alla quale fanno spesso riferimento a causa dei peccati del popolo, con l'incisiva immagine dell'amore da parte di Dio. Il Signore ama Israele con l'amore di una particolare elezione, simile all'amore di uno sposo e perciò perdona le sue colpe e perfino le infedeltà e i tradimenti. Se si trova di fronte alla penitenza, all'autentica conversione, egli riporta di nuovo il suo popolo alla grazia. Nella predicazione dei profeti la misericordia significa una speciale potenza dell'amore, che prevale sul peccato e sull'infedeltà del popolo eletto.
In questo ampio contesto «sociale», la misericordia appare come elemento correlativo dell'esperienza interiore delle singole persone, che versano in stato di colpa, o subiscono ogni genere di sofferenza e sventura. Sia il male fisico che il male morale, o peccato, fanno si che i figli e le figlie di Israele si rivolgano al Signore con un appello alla sua misericordia. In tal modo si rivolge a lui Davide nella coscienza della gravità della propria colpa e si rivolge, dopo le sue ribellioni, pure Giobbe nella sua tremenda sventura a lui si rivolge anche Ester, consapevole della minaccia mortale contro il proprio popolo. E altri esempi troviamo ancora nei libri dell'Antico Testamento.
All'origine di questo multiforme convincimento comunitario e personale, qual è comprovato da tutto l'Antico Testamento nel corso dei secoli, si colloca la fondamentale esperienza del popolo eletto vissuta all'epoca dell'esodo: il Signore osservò la miseria del suo popolo ridotto in schiavitù, udì il suo grido, conobbe le sue angosce e decise di liberarlo. In questo atto di salvezza compiuto dal Signore il profeta seppe individuare il suo amore e la sua compassione. È proprio qui che si radica la sicurezza di tutto il popolo e di ciascuno dei suoi membri nella misericordia divina, che si può invocare in ogni circostanza drammatica. A ciò si aggiunge il fatto che la miseria dell'uomo è anche il suo peccato. Il popolo dell'antica Alleanza conobbe questa miseria fin dai tempi dell'esodo, allorché innalzò il vitello d'oro. Su tale gesto di rottura dell'Alleanza il Signore stesso trionfò, quando si dichiarò solennemente a Mosè come «Dio di tenerezza e di grazia, lento all'ira e ricco di misericordia e di fedeltà». È in questa rivelazione centrale che il popolo eletto e ciascuno dei suoi componenti troveranno, dopo ogni colpa, la forza e la ragione per rivolgersi al Signore, per ricordargli ciò che egli aveva esattamente rivelato di se stesso e per implorarne il perdono.
Cosi, nei fatti come nelle parole, il Signore ha rivelato la sua misericordia fìn dai primordi del popolo che si è scelto e, nel corso della sua storia, questo popolo si è continuamente affidato, nelle disgrazie come nella presa di coscienza del suo peccato, al Dio delle misericordie. Tutte le sfumature dell'amore si manifestano nella misericordia del Signore verso i suoi: egli è il loro padre poiché Israele è suo figlio primogenito egli è anche lo sposo di colei a cui il profeta annuncia un nome nuovo: ruhamah, «beneamata», perché a lei sarà usata misericordia. Anche quando, esasperato dall'infedeltà del suo popolo, il Signore decide di farla finita con esso, sono ancora la tenerezza ed il suo amore generoso per il medesimo a fargli superare la collera. È facile allora comprendere perché i salmisti, allorché desiderano cantare le più sublimi lodi del Signore, intonano inni al Dio dell'amore, della tenerezza, della misericordia e della fedeltà.
Da tutto ciò si deduce che la misericordia non appartiene soltanto al concetto di Dio, ma è qualcosa che caratterizza la vita di tutto il popolo di Israele e dei suoi singoli figli e figlie: è il contenuto dell'intimità con il loro Signore, il contenuto del loro dialogo con lui. Proprio sotto questo aspetto, la misericordia viene presentata nei singoli libri dell'Antico Testamento con una grande ricchezza di espressioni. Sarebbe forse difficile cercare in questi libri una risposta puramente teorica alla domanda che cosa sia la misericordia in se stessa. Nondimeno, già la terminologia, che in essi è usata, può dirci moltissimo a tale proposito. L'Antico Testamento proclama la misericordia del Signore mediante molti termini di significato affine; essi sono differenziati nel loro contenuto particolare, ma tendono, si potrebbe dire, da vari lati ad un unico contenuto fondamentale, per esprimere la sua ricchezza trascendentale e, al tempo stesso, per avvicinarla all'uomo sotto aspetti diversi. L'Antico Testamento incoraggia gli uomini sventurati, soprattutto quelli gravati dal peccato - come anche tutto Israele, che aveva aderito all'alleanza con Dio - a far appello alla misericordia, e concede loro di contare su di essa: la ricorda nei tempi di caduta e di sfiducia. In seguito, esso rende grazie e gloria per la misericordia, ogni volta che si sia manifestata e compiuta sia nella vita del popolo, sia in quella del singolo individuo.
In tal modo, la misericordia viene, in certo senso, contrapposta alla giustizia divina e si rivela, in molti casi, non solo più potente di essa, ma anche più profonda. Già l'Antico Testamento insegna che, sebbene la giustizia sia autentica virtù nell'uomo, e in Dio significhi la perfezione trascendente, tuttavia l'amore è «più grande» di essa: è più grande nel senso che è primario e fondamentale. L'amore, per cosi dire, condiziona la giustizia e, in definitiva, la giustizia serve la carità. Il primato e la superiorità dell'amore nei riguardi della giustizia (ciò è caratteristico di tutta la rivelazione) si manifestano proprio attraverso la misericordia. Ciò sembrò tanto chiaro ai salmisti ed ai profeti che il termine stesso di giustizia fini per significare la salvezza realizzata dal Signore e la sua misericordia. La misericordia differisce dalla giustizia, però non contrasta con essa, se ammettiamo nella storia dell'uomo - come fa appunto l'Antico Testamento - la presenza di Dio, il quale già come creatore si è legato con un particolare amore alla sua creatura. L'amore, per natura, esclude l'odio e il desiderio del male nei riguardi di colui al quale una volta ha dato in dono se stesso: Nihil odisti eorum quae fecisti, «nulla tu disprezzi di quanto hai creato». Queste parole indicano il fondamento profondo del rapporto tra la giustizia e la misericordia in Dio, nelle sue relazioni con l'uomo e con il mondo. Esse dicono che dobbiamo cercare le radici vivificanti e le ragioni intime di questo rapporto risalendo al «principio», nel mistero stesso della creazione. E già nel contesto dell'antica Alleanza esse preannunciano la piena rivelazione di Dio, che «è amore».
Col mistero della creazione è connesso il mistero della elezione, che ha in modo speciale plasmato la storia del popolo il cui padre spirituale è Abramo in virtù della sua fede. Tuttavia, per mezzo di questo popolo che cammina lungo la storia sia dell'antica che della nuova Alleanza, quel mistero di elezione si riferisce ad ogni uomo, a tutta la grande famiglia umana: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». «Anche se i monti vacillassero..., non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace». Questa verità, proclamata un tempo ad Israele, porta in sé la prospettiva dell'intera storia dell'uomo: prospettiva che è insieme temporale ed escatologica. Cristo rivela il Padre nella stessa prospettiva e su un terreno già preparato, come dimostrano ampie pagine degli scritti dell'Antico Testamento. Al termine di tale rivelazione, alla vigilia della sua morte, egli dice all'apostolo Filippo le memorabili parole: «Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai conosciuto...? Chi ha visto me, ha visto il Padre».
CAPITOLO IV
LA PARABOLA DEL FIGLIOL PRODIGO
5. Analogia
Già alle soglie del Nuovo Testamento risuona nel Vangelo di san Luca una singolare corrispondenza tra due voci sulla misericordia divina, in cui echeggia intensamente tutta la tradizione veterotestamentaria. Qui trovano espressione quei contenuti semantici, legati alla terminologia differenziata dei libri antichi. Ecco Maria che, entrata nella casa di Zaccaria, magnifica il Signore con tutta l'anima «per la sua misericordia», di cui «di generazione in generazione» divengono partecipi gli uomini che vivono nel timore di Dio. Poco dopo, commemorando l'elezione di Israele, ella proclama la misericordia, della quale «si ricorda» da sempre colui che l'ha scelta. Successivamente, alla nascita di Giovanni Battista, nella stessa casa, suo padre Zaccaria, benedicendo il Dio di Israele, glorifica la misericordia che egli «ha concesso. . . ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza».
Nell'insegnamento di Cristo stesso questa immagine, ereditata dall'Antico Testamento, si semplifica ed insieme si approfondisce. Ciò è forse più evidente nella parabola del figliol prodigo, in cui l'essenza della misericordia divina, benché la parola «misericordia» non vi ricorra, viene espressa tuttavia in modo particolarmente limpido. A ciò contribuisce non tanto la terminologia, come nei libri veterotestamentari, ma l'analogia che consente di comprendere più pienamente il mistero stesso della misericordia, quale dramma profondo che si svolge tra l'amore del padre e la prodigalità e il peccato del figlio. Quel figlio, che riceve dal padre h porzione di patrimonio che gli spetta e lascia la casa per sperperarla in un paese lontano, «vivendo da dissoluto», è in certo senso l'uomo di tutti i tempi, cominciando da colui che per primo perdette l'eredità della grazia e della giustizia originaria. L'analogia è a questo punto molto ampia. La parabola tocca indirettamente ogni rottura dell'alleanza d'amore, ogni perdita della grazia, ogni peccato. In questa analogia è messa meno in rilievo l'infedeltà di tutto il popolo di Israele rispetto a quanto avveniva nella tradizione profetica, sebbene a quell'infedeltà si possa anche estendere l'analogia del figliol prodigo. Quel figlio, «quando ebbe speso tutto..., cominciò a trovarsi nel bisogno», tanto più che venne una grande carestia «in quel paese» in cui si era recato dopo aver lasciato la casa paterna. E in questa situazione «avrebbe voluto saziarsi» con qualunque cosa, magari anche «con le carrube che mangiavano i porci» da lui pascolati per conto di «uno degli abitanti di quella regione». Ma perfino questo gli veniva rifiutato.
L'analogia si sposta chiaramente verso l'interno dell'uomo. Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali, ma più importante di questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna. La situazione in cui si venne a trovare al momento della perdita dei beni materiali doveva renderlo cosciente della perdita di questa dignità. Egli non vi aveva pensato prima, quando aveva chiesto al padre di dargli la parte del patrimonio che gli spettava per andar via. E sembra che non ne sia consapevole neppure adesso, quando dice a se stesso: «Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza, ed io qui muoio di fame!». Egli misura se stesso con il metro dei beni che aveva perduto, che non «possiede» più, mentre i salariati in casa di suo padre li «posseggono». Queste parole esprimono soprattutto il suo atteggiamento verso i beni materiali; nondimeno, sotto la superficie di esse, si cela il dramma della dignità perduta, la coscienza della figliolanza sciupata. È allora che egli prende la decisione: «Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni». Parole, queste, che svelano più a fondo il problema essenziale. Attraverso la complessa situazione materiale, in cui il figliol prodigo era venuto a trovarsi a causa della sua leggerezza, a causa del peccato, era maturato il senso della dignità perduta. Quando egli decide di ritornare alla casa paterna, di chiedere al padre di essere accolto - non già in virtù del diritto di figlio, ma in condizione di mercenario -, sembra esteriormente agire a motivo della fame e della miseria in cui è caduto; questo motivo è però permeato dalla coscienza di una perdita più profonda: essere un garzone nella casa del proprio padre è certamente una grande umiliazione e vergogna. Nondimeno, il figliol prodigo è pronto ad affrontare tale umiliazione e vergogna. Egli si rende conto che non ha più alcun diritto, se non quello di essere mercenario nella casa del padre. La sua decisione è presa in piena coscienza di ciò che ha meritato e di ciò a cui può ancora aver diritto secondo le norme della giustizia. Proprio questo ragionamento dimostra che, al centro della coscienza del figliol prodigo, emerge il senso della dignità perduta, di quella dignità che scaturisce dal rapporto del figlio col padre. Ed è con tale decisione che egli si mette per strada.
Nella parabola del figliol prodigo non è usato neanche una sola volta il termine «giustizia», cosi come, nel testo originale, non è usato quello di «misericordia»; tuttavia, il rapporto della giustizia con l 'amore che si manifesta come misericordia viene con grande precisione inscritto nel contenuto della parabola evangelica. Diviene più palese che l'amore si trasforma in misericordia quando occorre oltrepassare la precisa norma della giustizia: precisa e spesso troppo stretta. Il figliol prodigo, consumate le sostanze ricevute dal padre, merita - dopo il ritorno - di guadagnarsi da vivere lavorando nella casa paterna come mercenario, ed eventualmente, a poco a poco, di conseguire una certa provvista di beni materiali, forse però mai più nella quantità in cui li aveva sperperati. Tale sarebbe l'esigenza dell'ordine di giustizia, tanto più che quel figlio non soltanto aveva dissipato la parte del patrimonio spettantegli, ma inoltre aveva toccato sul vivo ed offeso il padre con la sua condotta. Questa, infatti, che a suo giudizio l'aveva privato della dignità filiale, non doveva essere indifferente al padre. Doveva farlo soffrire. Doveva anche, in qualche modo, coinvolgerlo. Eppure si trattava, in fìn dei conti, del proprio figlio, e tale rapporto non poteva essere né alienato né distrutto da nessun comportamento. Il figliol prodigo ne è consapevole, ed è appunto tale consapevolezza a mostrargli chiaramente la dignità perduta ed a fargli valutare rettamente il posto che ancora poteva spettargli nella casa del padre.
6. Particolare concentrazione sulla dignità umana.
Questa precisa immagine dello stato d 'animo del figliol prodigo ci permette di comprendere con esattezza in che cosa consista la misericordia divina. Non vi è alcun dubbio che in quella semplice ma penetrante analogia, la figura del genitore ci svela Dio come Padre. Il comportamento del padre della parabola e tutto il suo modo di agire, che manifestano il suo atteggiamento interiore, ci consentono di ritrovare i singoli fili della visione vetero-testamentaria della misericordia in una sintesi totalmente nuova, piena di semplicità e di profondità. Il padre del figliol prodigo è fedele alla sua paternità, fedele a quell'amore che da sempre elargiva al proprio figlio. Tale fedeltà si esprime nella parabola non soltanto con la prontezza immediata nell'accoglierlo in casa, quando ritorna dopo aver sperperato il patrimonio: essa si esprime ancor più pienamente con quella gioia, con quella festosità cosi generosa nei confronti del dissipatore dopo il ritorno, che è tale da suscitare l'opposizione e l'invidia del fratello maggiore, il quale non si era mai allontanato dal padre e non ne aveva abbandonato la casa.
La fedeltà a se stesso da parte del padre - un tratto già noto dal termine vetero-testamentario «.hesed» - viene al tempo stesso espressa in modo particolarmente carico di affetto. Leggiamo infatti che, quando il padre vide il figliol prodigo tornare a casa, «commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Egli agisce certamente sotto l'influsso di un profondo affetto, e così può essere spiegata anche la sua generosità verso il figlio, quella generosità che tanto indigna il fratello maggiore. Tuttavia, le cause di quella commozione vanno ricercate più in profondità. Ecco, il padre è consapevole che è stato salvato un bene fondamentale: il bene dell'umanità del suo figlio. Sebbene questi abbia sperperato il patrimonio, è però salva la sua umanità. Anzi, essa è stata in qualche modo ritrovata. Lo dicono le parole che il padre rivolge al figlio maggiore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Nello stesso capitolo XV del Vangelo secondo Luca, leggiamo la parabola della pecora ritrovata, e successivamente la parabola della dramma ritrovata. Ogni volta vi è posta in rilievo la medesima gioia presente nel caso del figliol prodigo. La fedeltà del padre a se stesso è totalmente incentrata sull'umanità del figlio perduto, sulla sua dignità. Così si spiega soprattutto la gioiosa commozione al momento del suo ritorno a casa.
Proseguendo, si può dunque dire che l'amore verso il figlio, L'amore che scaturisce dall'essenza stessa della paternità, obbliga in un certo senso il padre ad aver sollecitudine della dignità del figlio. Questa sollecitudine costituisce la misura del suo amore, L'amore di cui scriverà poi san Paolo: «La carità è paziente, è benigna la carità..., non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto..., si compiace della verità..., tutto spera, tutto sopporta» e «non avrà mai fine». La misericordia - come l'ha presentata Cristo nella parabola del figliol prodigo - ha la forma interiore dell'amore che nel Nuovo Testamento è chiamato «agápe». Tale amore è capace di chinarsi su ogni figlio prodigo, su ogni miseria umana e, soprattutto, su ogni miseria morale, sul peccato. Quando ciò avviene, colui che è oggetto della misericordia non si sente umiliato, ma come ritrovato e «rivalutato». Il padre gli manifesta innanzitutto la gioia che sia stato «ritrovato» e che sia «tornato in vita». Tale gioia indica un bene inviolato: un figlio, anche se prodigo, non cessa di esser figlio reale di suo padre; essa indica inoltre un bene ritrovato, che nel caso del figliol prodigo fu il ritorno alla verità su se stesso.
Ciò che si è verificato nel rapporto del padre col figlio nella parabola di Cristo non si può valutare «dall'esterno». I nostri pregiudizi sul tema della misericordia sono per lo più Il risultato di una valutazione soltanto esteriore. Alle volte, seguendo un tale modo di valutare, accade che avvertiamo nella misericordia soprattutto un rapporto di diseguaglianza tra colui che la offre e colui che la riceve. E, di conseguenza, siamo pronti a dedurre che la misericordia diffama colui che la riceve, che offende la dignità dell'uomo. La parabola del figliol prodigo dimostra che la realtà è diversa: la relazione di misericordia si fonda sulla comune esperienza di quel bene che è l'uomo, sulla comune esperienza della dignità che gli è propria. Questa comune esperienza fa sì che il figliol prodigo cominci a vedere se stesso e le sue azioni in tutta verità (tale visione nella verità è un'autentica umiltà); e per il padre, proprio per questo motivo, egli diviene un bene particolare: il padre vede con così limpida chiarezza il bene che si è compiuto, grazie ad una misteriosa irradiazione della verità e dell'amore, che sembra dimenticare tutto il male che il figlio aveva commesso.
La parabola del figliol prodigo esprime in modo semplice, ma profondo, la realtà della conversione. Questa è la più concreta espressione dell'opera dell'amore e della presenza della misericordia nel mondo umano. Il significato vero e proprio della misericordia non consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più penetrante e compassionevole, rivolto verso il male morale, fisico o materiale: la misericordia si manifesta nel suo aspetto vero e proprio quando rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di male esistenti nel mondo e nell'uomo. Così intesa, essa costituisce il contenuto fondamentale del messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva della sua missione. Allo stesso modo intendevano e praticavano la misericordia i suoi discepoli e seguaci. Essa non cessò mai di rivelarsi, nei loro cuori e nelle loro azioni, come una verifica particolarmente creatrice dell'amore che non si lascia «vincere dal male», ma si vince «con il bene il male». Occorre che il volto genuino della misericordia sia sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai nostri tempi.
CAPITOLO V
IL MISTERO PASQUALE
7. Misericordia rivelata nella croce e nella resurrezione
Il messaggio messianico di Cristo e la sua attività fra gli uomini terminano con la croce e la risurrezione. Dobbiamo penetrare profondamente in questo evento finale che, specialmente nel linguaggio conciliare, viene definito mistero pasquale, se vogliamo esprimere sino in fondo la verità sulla misericordia, così come essa è stata sino in fondo rivelata nella storia della nostra salvezza. A questo punto delle nostre considerazioni, occorrerà avvicinarci ancora di più al contenuto dell'enciclica Redemptor hominis. Se infatti la realtà della redenzione, nella sua dimensione umana, svela la grandezza inaudita dell'uomo, che meritò di avere un così grande Redentore, al tempo stesso la dimensione divina della redenzione ci consente, direi, nel modo più empirico e «storico», di svelare la profondità di quell'amore che non indietreggia davanti allo straordinario sacrificio del Figlio, per appagare la fedeltà del Creatore e Padre nei riguardi degli uomini creati a sua immagine e fìn dal «principio» scelti, in questo Figlio, per la grazia e per la gloria.
Gli eventi del Venerdì santo e, prima ancora, la preghiera nel Getsemani introducono, in tutto il corso della rivelazione dell'amore e della misericordia, nella missione messianica di Cristo, un cambiamento fondamentale. Colui che «passò beneficando e risanando» e «curando ogni malattia e infermità» sembra ora egli stesso meritare la più grande misericordia e richiamarsi alla misericordia, quando viene arrestato, oltraggiato, condannato, flagellato, coronato di spine, quando viene inchiodato alla croce e spira fra tormenti strazianti. È allora che merita particolarmente la misericordia dagli uomini che ha beneficato, e non la riceve. Perfino coloro che gli sono più vicini non sanno proteggerlo e strapparlo dalle mani degli oppressori. In questa tappa finale della missione messianica si adempiono in Cristo le parole dei profeti e soprattutto di Isaia, pronunciate riguardo al Servo di Jahvè: «Per le sue piaghe noi siamo stati guariti».
Cristo, come uomo che soffre realmente e in modo terribile nell'orto degli ulivi e sul Calvario, si rivolge al Padre, a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini, la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma non gli viene risparmiata - proprio a lui - la tremenda sofferenza della morte in croce: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore», scriverà san Paolo, riassumendo in poche parole tutta la profondità del mistero della croce ed insieme la dimensione divina della realtà della redenzione. Proprio questa redenzione è l'ultima e definitiva rivelazione della santità di Dio, che è la pienezza assoluta della perfezione: pienezza della giustizia e dell'amore, poiché la giustizia si fonda sull'amore, da esso promana e ad esso tende. Nella passione e morte di Cristo - nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» - si esprime la giustizia assoluta, perché Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell'umanità. Ciò è addirittura una «sovrabbondanza» della giustizia, perché i peccati dell'uomo vengono «compensati» dal sacrificio dell'Uomo-Dio. Tuttavia, tale giustizia, che è propriamente giustizia «su misura» di Dio, nasce tutta dall'amore: dall'amore del Padre e del Figlio, e fruttifica tutta nell'amore. Proprio per questo la giustizia divina rivelata nella croce di Cristo è «su misura» di Dio, perché nasce dall'amore e nell'amore si compie, generando frutti di salvezza. La dimensione divina della redenzione non si attua soltanto nel far giustizia del peccato, ma nel restituire all'amore quella forza creativa nell'uomo, grazie alla quale egli ha nuovamente accesso alla pienezza di vita e di santità che proviene da Dio. In tal modo, la redenzione porta in sé la rivelazione della misericordia nella sua pienezza.
Il mistero pasquale è il vertice di questa rivelazione ed attuazione della misericordia, che è capace di giustificare l'uomo, di ristabilire la giustizia nel senso di quell'ordine salvifico che Dio dal principio aveva voluto nell'uomo e, mediante l'uomo, nel mondo. Cristo sofferente parla in modo particolare all'uomo, e non soltanto al credente. Anche l'uomo non credente saprà scoprire in lui l'eloquenza della solidarietà con la sorte umana, come pure l'armoniosa pienezza di una disinteressata dedizione alla causa dell'uomo, alla verità e all'amore. La dimensione divina del mistero pasquale giunge, tuttavia, ancor più in profondità. La croce collocata sul Calvario, su cui Cristo svolge il suo ultimo dialogo col Padre, emerge dal nucleo stesso di quell'amore di cui l'uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è stato ratificato secondo l'eterno disegno divino. Dio, quale Cristo ha rivelato, non rimane soltanto in stretto collegamento col mondo, come creatore e ultima fonte dell'esistenza. Egli è anche Padre: con l'uomo, da lui chiamato all'esistenza nel mondo visibile, è unito da un vincolo ancor più profondo di quello creativo. È l'amore che non soltanto crea il bene, ma fa partecipare alla vita stessa di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Infatti, colui che ama desidera donare se stesso. La croce di Cristo sul Calvario sorge sulla via di quel meraviglioso scambio, di quel mirabile comunicarsi di Dio all'uomo, in cui è al tempo stesso contenuta la chiamata rivolta all'uomo, affinché, donando se stesso a Dio e con sé tutto il mondo visibile, partecipi alla vita divina, - e affinché come figlio adottivo divenga partecipe della verità e dell'amore che è in Dio e che proviene da Dio. Proprio sulla via dell'eterna elezione dell'uomo alla dignità di figlio adottivo di Dio, sorge nella storia la croce di Cristo, Figlio unigenito, che, come «luce da luce, Dio vero da Dio vero» (Credo), è venuto a dare l'ultima testimonianza della mirabile alleanza di Dio con l'umanità, di Dio con l'uomo - con ogni uomo. Questa alleanza, antica come l'uomo - risale al mistero stesso della creazione - e ristabilita poi più volte con un unico popolo eletto, è ugualmente l'alleanza nuova e definitiva, stabilita là, sul Calvario, e non limitata ad un unico popolo, ad Israele, ma aperta a tutti e a ciascuno.
Che cosa dunque ci dice la croce di Cristo, che è, in un certo senso, l'ultima parola del suo messaggio e della sua missione messianica? - Eppure, questa non è ancora l'ultima parola del Dio dell'alleanza: essa sarà pronunciata in quell'alba, quando prima le donne e poi gli apostoli, venuti al sepolcro di Cristo crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per la prima volta l'annuncio: «È risorto». Essi lo ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la quale - attraverso tutta la testimonianza messianica dell'Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte - parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è assolutamente fedele al suo eterno amore verso l'uomo, poiché «ha tanto amato il mondo - quindi l'uomo nel mondo - da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna». Credere nel Figlio crocifisso significa «vedere il Padre», significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l'uomo, L'umanità, il mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa infatti è la dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca e assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo «perire nella Geenna».
8. Amore più potente della morte, più potente del peccato
La croce di Cristo sul Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza «fino alla morte». Colui che era senza peccato, «Dio lo trattò da peccato in nostro favore». Viene anche fatta giustizia della morte che, dagli inizi della storia dell'uomo, si era alleata col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva - mediante la propria morte - infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo, sulla quale il Figlio consostanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, è anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell'amore che va contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo: contro al peccato e alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia, tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici del male che affondano nel peccato e nella morte, e cosi diventa un segno escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua morte. Il fatto che Cristo «è risuscitato il terzo giorno» costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male. Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia «un nuovo cielo e una nuova terra», quando Dio «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate».
Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo - programma di misericordia - diviene il programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo sta sempre la croce, poiché in essa la rivelazione dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che «le cose di prima» non passeranno, la croce rimarrà quel «luogo» al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di Giovanni: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. In modo particolare, Dio rivela anche la sua misericordia quando sollecita l'uomo alla «misericordia» verso il suo proprio Figlio, verso il crocifisso. Cristo, appunto come crocifisso, è il Verbo che non passa, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo, senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà l'amore, che è non soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio dell'uomo, ma anche in certo modo «misericordia» manifestata da ognuno di noi al Figlio dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo senso, colui che contemporaneamente «manifesta la misericordia»?
In definitiva, Cristo non prende forse tale posizione nei riguardi dell'uomo quando dice: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi..., l'avete fatto a me»? Le parole del discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia», non costituiscono in un certo senso una sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il «mirabile scambio» (admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed insieme «dolce» dell'economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del «cuore umano» («essere misericordiosi»), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l'amore, contenendo la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la perfezione della giustizia?
Il mistero pasquale è Cristo al vertice della rivelazione dell'inscrutabile mistero di Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel cenacolo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Infatti Cristo, che il Padre «non ha risparmiato» in favore dell'uomo -e che nella sua passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. «Non è un Dio dei morti, ma dei viventi». Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'amore misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla risurrezione. Ed è per questo che - quando ricordiamo la croce di Cristo, la sua passione e morte - la nostra fede e la nostra speranza s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo che «la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato... si fermò in mezzo a loro» nel cenacolo «dove si trovavano i discepoli, ...alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine - e in certo senso già oltre il termine - della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storicosalvifìco ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del Salmo: Canterò in eterno le misericordie del Signore.
9. La Madre della misericordia
In queste parole pasquali della Chiesa risuonano, nella pienezza del loro contenuto profetico, quelle già pronunciate da Maria durante la visita fatta a Elisabetta, moglie di Zaccaria: «Di generazione in generazione la sua misericordia». Esse, già dal momento dell'incarnazione, aprono una nuova prospettiva della storia della salvezza. Dopo la risurrezione di Cristo questa prospettiva è nuova sul piano storico e, al tempo stesso, lo è sul piano escatologico. Da allora si susseguono sempre nuove generazioni di uomini nell'immensa famiglia umana, in dimensioni sempre crescenti; si susseguono anche nuove generazioni del Popolo di Dio, segnate dallo stigma della croce e della risurrezione, e «sigillate» con il segno del mistero pasquale di Cristo, rivelazione assoluta di quella misericordia che Maria proclamò sulla soglia di casa della sua parente: «M generazione in generazione la sua misericordia».
Maria è anche colei che, in modo particolare ed eccezionale - come nessun altro -, ha sperimentato la misericordia e al tempo stesso, sempre in modo eccezionale, ha reso possibile col sacrificio del cuore la propria partecipazione alla rivelazione della misericordia divina. Tale sacrificio è strettamente legato alla croce del Figlio, ai piedi della quale ella doveva trovarsi sul Calvario. Questo suo sacrificio è una singolare partecipazione al rivelarsi della misericordia, cioè alla fedeltà assoluta di Dio al proprio amore, all'alleanza che egli ha voluto fin dall'eternità ed ha concluso nel tempo con l'uomo, con il popolo, con l'umanità; è la partecipazione a quella rivelazione che si è definitivamente compiuta attraverso la croce. Nessuno ha sperimentato, al pari della Madre del Crocifisso, il mistero della croce, lo sconvolgente incontro della trascendente giustizia divina con l'amore: quel «bacio» dato dalla misericordia alla giustizia. Nessuno al pari di lei, Maria, ha accolto col cuore quel mistero: quella dimensione veramente divina della redenzione che ebbe attuazione sul Calvario mediante la morte del Figlio, insieme al sacrificio del suo cuore di madre, insieme al suo definitivo «fiat».
Maria quindi è colei che conosce più a fondo il mistero della misericordia divina. Ne sa il prezzo, e sa quanto esso sia grande. In questo senso la chiamano anche Madre della misericordia: Madonna della misericordia o Madre della divina misericordia; in ciascuno di questi titoli c'è un profondo significato teologico, perché essi esprimono la particolare preparazione della sua anima, di tutta la sua personalità, nel saper vedere, attraverso i complessi avvenimenti di Israele prima, e di ogni uomo e dell'umanità intera poi, quella misericordia di cui «di generazione in generazione» si diviene partecipi secondo l'eterno disegno della SS. Trinità.
I suddetti titoli che attribuiamo alla Madre di Dio parlano però soprattutto di lei come della Madre del Crocifisso e del Risorto; come di colei che, avendo sperimentato la misericordia in modo eccezionale, «merita» in egual modo tale misericordia lungo l'intera sua vita terrena e, particolarmente, ai piedi della croce del Figlio; ed infìne, come di colei che, attraverso la partecipazione nascosta e al tempo stesso incomparabile alla missione messianica del suo Figlio, è stata chiamata in modo speciale ad avvicinare agli uomini quell'amore che egli era venuto a rivelare: amore che trova la più concreta espressione nei riguardi di coloro che soffrono, dei poveri, di coloro che son privi della propria libertà, dei non vedenti, degli oppressi e dei peccatori, cosi come ne parlò Cristo secondo la profezia di Isaia, prima nella sinagoga di Nazaret e poi in risposta alla richiesta degli inviati di Giovanni Battista.
Appunto a questo amore «misericordioso», che viene manifestato soprattutto a contatto con il male morale e fisico, partecipava in modo singolare ed eccezionale il cuore di colei che fu Madre del Crocifisso e del Risorto, partecipava Maria. Ed in lei e per mezzo di lei, esso non cessa di rivelarsi nella storia della Chiesa e dell'umanità. Tale rivelazione è specialmente fruttuosa, perché si fonda, nella Madre di Dio, sul singolare tatto del suo cuore materno, sulla sua particolare sensibilità, sulla sua particolare idoneità a raggiungere tutti coloro che accettano più facilmente l'amore misericordioso da parte di una madre. Questo è uno dei grandi e vivificanti misteri del cristianesimo, tanto strettamente connesso con il mistero dell'incarnazione.
«Questa maternità di Maria nell'economia della grazia - come si esprime il Concilio Vaticano II - perdura senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato nell'annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti, assunta in cielo non ha deposto questa funzione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua a ottenerci le grazie della salute eterna. Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata».
CAPITOLO VI
MISERICORDIA ..... DI GENERAZIONE IN GENERAZIONE
10. Immagine della nostra generazione
Abbiamo ogni diritto di credere che anche la nostra generazione è stata compresa nelle parole della Madre di Dio, quando glorificava quella misericordia di cui «di generazione in generazione» sono partecipi coloro che si lasciano guidare dal timore di Dio. Le parole del Magnificat mariano hanno un contenuto profetico che riguarda non soltanto il passato di Israele, ma anche l'intero avvenire del Popolo di Dio sulla terra. Siamo infatti, noi tutti che viviamo al presente sulla terra, la generazione che è consapevole dell'approssimarsi del terzo Millennio e che sente profondamente la svolta che si sta verifìcando nella storia.
La presente generazione avverte di essere privilegiata, perché il progresso le offre molte possibilità, appena qualche decennio fa insospettate. L'attività creatrice dell'uomo, la sua intelligenza e il suo lavoro, hanno causato profondi cambiamenti sia nel campo della scienza e della tecnica, come nella vita sociale e culturale. L'uomo ha esteso il suo potere sulla natura ed ha acquistato una conoscenza più approfondita delle leggi del proprio comportamento sociale. Egli ha visto crollare o restringersi gli ostacoli e le distanze che separano uomini e nazioni, grazie ad un accresciuto senso universalistico, ad una più chiara coscienza dell'unità del genere umano e all'accettazione della reciproca dipendenza in un'autentica solidarietà, e grazie infìne al desiderio - e alla possibilità - di venire a contatto con i propri fratelli e sorelle al di là delle divisioni artificialmente create dalla geografia o dalle frontiere nazionali o razziali. I giovani d'oggi soprattutto sanno che il progresso della scienza e della tecnica può procurare non solo nuovi beni materiali, ma anche una più vasta partecipazione alla reciproca conoscenza. Ad esempio, lo sviluppo dell'informatica moltiplicherà le capacità creatrici dell'uomo e gli permetterà di accedere alle ricchezze intellettuali e culturali degli altri popoli. Le nuove tecniche di comunicazione favoriranno una maggiore partecipazione agli avvenimenti e un crescente scambio di idee. Le acquisizioni della scienza biologica, psicologica o sociale aiuteranno l'uomo a penetrare meglio nelle ricchezze del proprio essere. E se è vero che un tale progresso resta ancora troppo spesso privilegio dei paesi industrializzati, non si può negare tuttavia che la prospettiva di farne beneficiare tutti i popoli e tutti i paesi non sarà più a lungo un'utopia, quando vi sia una reale volontà politica a questo fine.
Ma a fianco di tutto questo - o piuttosto entro a tutto questo - esistono nello stesso tempo difficoltà, che si dimostrano anzi in aumento. Esistono inquietudini e impotenze, che costringono ad una risposta radicale che l'uomo sente di dover dare. Il quadro del mondo contemporaneo presenta anche ombre e squilibri non sempre superficiali. La Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II non è certamente l'unico documento che tratta della vita della generazione contemporanea, ma è un documento di importanza particolare. «In verità gli squilibri, di cui soffre il mondo contemporaneo - leggiamo in essa - si collegano con quel più profondo squilibrio, che è radicato nel cuore dell'uomo. È proprio all'interno dell'uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d'altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società». Verso la fine dell'esposizione introduttiva leggiamo: «...di fronte alla presente evoluzione del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi capitali: che cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte che, malgrado ogni progresso, continuano a sussistere? Che cosa valgono queste conquiste raggiunte a così caro prezzo?». Nell'arco di ormai quindici anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, quel quadro di tensioni e di minacce proprie della nostra epoca è forse divenuto meno inquietante? Sembra di no. Al contrario, le tensioni e le minacce, che nel documento conciliare sembravano soltanto delinearsi e non manifestare sino in fondo tutto il pericolo che celavano in sé, nello spazio di questi anni si sono maggiormente rivelate, hanno confermato in modo diverso quel pericolo e non permettono di nutrire le illusioni di un tempo.
11. Fonti di inquietudine
Pertanto, nel nostro mondo aumenta il senso di minaccia. Aumenta quel timore esistenziale collegato soprattutto - come ho già accennato nell'enciclica Redemptor hominis - con la prospettiva di un conflitto che, in considerazione degli odierni arsenali atomici, potrebbe significare la parziale autodistruzione dell'umanità. Tuttavia, la minaccia non concerne soltanto ciò che gli uomini possono fare agli uomini, servendosi dei mezzi della tecnica militare; essa riguarda anche molti altri pericoli che sono il prodotto di una civiltà materialistica, la quale - nonostante dichiarazioni «umanistiche» - accetta il primato delle cose sulla persona. L'uomo contemporaneo ha dunque paura che, con l'uso dei mezzi inventati da questo tipo di civiltà, i singoli individui ed anche gli ambienti, le comunità, le società, le nazioni, possano rimanere vittima del sopruso di altri individui, ambienti, società. La storia del nostro secolo ne offre esempi in abbondanza. Malgrado tutte le dichiarazioni sui diritti dell'uomo nella sua dimensione integrale, cioè nella sua esistenza corporea e spirituale, non possiamo dire che questi esempi appartengano soltanto al passato.
L'uomo ha giustamente paura di restar vittima di una oppressione che lo privi della libertà interiore, della possibilità di esternare la verità di cui è convinto, della fede che professa, della facoltà di obbedire alla voce della coscienza che gli indica la retta via da seguire. I mezzi tecnici a disposizione della civiltà odierna celano, infatti, non soltanto la possibilità di un'autodistruzione per via di un conflitto militare, ma anche la possibilità di un soggiogamento «pacifico» degli individui, degli àmbiti di vita, di società intere e di nazioni, che per qualsiasi motivo possono riuscire scomodi per coloro i quali dispongono dei relativi mezzi e sono pronti a servirsene senza scrupolo. Si pensi anche alla tortura, tuttora esistente nel mondo, esercitata sistematicamente dall'autorità come strumento di dominio o di sopraffazione politica, e impunemente praticata dai subalterni. Cosi dunque, accanto alla coscienza della minaccia biologica, cresce la coscienza di un'altra minaccia che ancor più distrugge ciò che è essenzialmente umano, ciò che è intimamente collegato con la dignità della persona, con il suo diritto alla verità e alla libertà.
E tutto ciò si svolge sullo sfondo del gigantesco rimorso costituito dal fatto che, accanto agli uomini ed alle società agiate e sazie, viventi nell'abbondanza, soggette al consumismo e al godimento, non mancano nella stessa famiglia umana né gli individui né i gruppi sociali che soffrono la fame. Non mancano i bambini che muoiono di fame s
Giovanni Paolo II, Papa
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