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ALLA MENSA DELLA PAROLA - AUTORI VARI  

Data inserimento: 01/06/2005
LA DOMENICA DELLA CHIAMATA DI MATTEO (X DOMENICA PER ANNUM A)


Vangelo (Mt 9, 9-13)
In quel tempo, Gesù, passando, vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”.
Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”.


La prima e la terza lettura di questa Domenica si richiamano anche materialmente fra di loro, perché Gesù proprio dal testo di Osea (6,6) prende a in prestito una frase assai illuminante per giustificare il suo atteggiamento di benevolenza verso i peccatori: «Andate dunque ed imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio» (Mt 9,13). Pur dandogli una leggera inflessione di significato, come vedremo tra poco, Gesù mantiene all'oracolo profetico tutta la sua pregnanza antiformalistica: conta più l'amore verso il prossimo, soprattutto se smarrito e lontano da Dio, che non l'osservanza di certe forme di culto rituale che solo apparentemente avvicinano a Dio. Direi che, paradossalmente, Dio si incontra proprio là dove sembrerebbe che di lui non vi fosse più alcuna traccia! E per questo che il cristiano vero non si segrega dagli altri, ritenendosi lui soltanto possessore della «verità», od operatore della «giustizia». Questo lo facevano i farisei, che però Gesù smaschera spietatamente nel Vangelo: «Voi vi ritenete giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio» (Lc 16, 15). La prima lettura, come abbiamo già detto, è ripresa da Osea e segue immediatamente la descrizione degli orrori religiosi, morali, sociali in cui era caduto Israele, a incominciare dai capi fino agli ultimi del popolo: per questo Dio minaccia la rovina della nazione, nonostante il tentativo di un'alleanza protettiva con il re di Assiria, Tiglat Pilezer III (740 circa): «Efraim ha visto la sua infermità e Giuda la sua piaga. Efraim è ricorso all'Assiria e Giuda si è rivolto al gran re; ma egli non potrà curarvi, non guarirà la vostra piaga» (Os 5,13). Nel desiderio di ritrovare l'amicizia e la protezione del Signore, Israele organizza una liturgia penitenziale sperando che egli si plachi dinanzi alle suppliche e alle promesse di conversione, che però sono dettate solo dall'emozione e durano lo spazio di un mattino: «Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l'aurora ... » (Os 6,3). Ma Iddio respinge queste vuote manifestazioni di un culto che non esprime e, non realizza la conversione del cuore, e rimanda alle parole dei suoi profeti che, fino a questo momento, sono rimaste inascoltate: «Che dovrò fare per te, Efraim; che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all'alba svanisce. Per questo li ho colpiti per mezzo dei profeti, li ho uccisi con le parole della mia bocca e il mio giudizio sorge come la luce» (vv. 4 5). Continuerà dunque la punizione e lo sfacelo nazionale si aggraverà, fino a che Israele non avrà compreso che quello che conta è la «fedeltà» all'alleanza, espressa nell'obbedienza alla parola di Dio trasmessa dai profeti e nell'amore ai fratelli. Questo è il «culto» vero che rende accetti al Signore (cf Os 14,3). E quanto viene detto nell'ultimo versetto del breve oracolo, che rappresenta una delle vette più alte della spiritualità e dell'interiorità dell'Antico Testamento: «Poiché io voglio l'amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti» (v. 6). Al culto meramente esteriore, espresso nei «sacrifici» e negli «olocausti», si oppone dunque l'«amore» e la «conoscenza di Dio» da parte degli uomini. Al termine «amore» corrisponde la parola ebraica khèsed, dall'ampia risonanza semantica. Fondamentalmente essa esprime un «atteggiamento conforme all'alleanza», cioè una forma di «solidarietà» alla quale si sono obbligate le parti che hanno stipulato un patto. Riferito a Dio, il termine esprime la fedeltà alla sua alleanza contratta con Israele e anche il particolare affetto che ne deriva nei riguardi del popolo eletto (cf Es 34,6). Infatti il termine verrà adoperato di preferenza per descrivere il rapporto di «nuzialità» di Dio con il suo popolo: «Ti farò mia sposa per sempre... nella benevolenza e nell'amore» (Os 2,2 1). Di riflesso, però, l'«amore» di Dio esige anche nell'uomo un atteggiamento di khèsed, cioè l'amicizia fiduciosa, l'abbandono, la tenerezza, la «pietà», in una parola l'amore, che si traduce in una sottomissione gioiosa alla volontà di Dio e nella carità verso il prossimo. All'amore si congiunge la «conoscenza di Dio», che non è mera conoscenza intellettuale, ma una specie di «esperienza» di Dio fatta «affidandosi» a lui. Come Dio «si fa conoscere» all'uomo legandosi a lui per mezzo dell'alleanza, così l'uomo «conosce» Dio per mezzo di un atteggiamento che implica la fedeltà alla sua alleanza, il riconoscimento dei suoi benefici, l'amore. Perciò, sempre in Osea, la «conoscenza di Dio» è rapportata ancora all'immagine nuziale, di cui abbiamo appena parlato: «Ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,22). «Amore» e «conoscenza» perciò si intrecciano, per aprirci la strada all'unica possibilità di incontro in Dio. Fuori di questa prospettiva Dio rimarrà sempre un «oggetto», che magari ci teniamo caro, per timore o per certi possibili momenti di emergenza, dandogli anche qualche grano d'incenso o qualche bisbiglio di preghiere, ma non l'essere «più intimo a noi di noi stessi» (sant'Agostino), colui che deve diventare l'unico «soggetto» della nostra vita. In questo testo Osea non rettifica soltanto la religiosità degli Ebrei del suo tempo, ma anche la religiosità di quei «giudei» in ritardo che siamo rimasti un po' tutti noi cristiani, più pronti a «parlare» di Dio che a «vivere» di Dio, più pronti a cantare le sue lodi che a «essere noi la sua lode» (sant'Agostino). In questo senso è molto significativo il Salmo responsoriale, che è tutto una polemica contro l'esteriorità del culto: «Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici; / i tuoi olocausti mi stanno sempre davanti. / Se avessi fame, a te non lo direi: / mio è il mondo e quanto contiene... / Offri a Dio un sacrificio di lode / e sciogli all’Altissimo i tuoi voti; / invocami nel giorno della sventura: / ti salverò e tu mi darai gloria» (Sal 49,8.12.14 15). Il breve tratto evangelico (Mt 9,9 13) è una composizione letteraria molto ben organizzata, che tende a far vedere come Cristo soltanto può «convertire» i cuori degli uomini, chinandosi con amore sulle loro pene e i loro peccati. Ed è proprio questa «celebrazione» della misericordia e del perdono che vale più di qualsiasi osservanza rituale: questo è il «culto» vero che Dio riceve in Cristo ed esige dai credenti. Dapprima c'è la scena della chiamata di Matteo, che Marco (2,13 14) e Luca (5,27 28) chiamano invece Levi. Passando per la «sua città» (9, 1), cioè Cafarnao, «Gesù vide un uomo chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: "Seguimi". Ed egli si alzò e lo seguì» (v. 9). Luca aggiunge un breve inciso. «Egli, lasciando tutto, si alzò e lo segui» (5,28)" che è il tratto caratteristico della «sequela» anche degli altri Apostoli (cf Mt 4,20 22, ecc.). Se ben ci pensiamo, siamo davvero davanti a qualcosa che è miracoloso quanto e più di tutti gli altri miracoli narrati in questa sezione (cc. 8 9): sono ben nove i miracoli qui descritti e molto ben coordinati fra di loro. Basta una sola «parola» di Cristo a cambiare non soltanto il destino di un uomo, ma a dare alla sua vita un significato e un contenuto del tutto diversi! Ma che cosa ha questa «parola» per essere così «potente»? E' la stessa domanda che si ponevano i discepoli, spaventati, dopo che Gesù aveva «sgridato» i venti e il mare in tempesta: «Chi è mai costui, al quale i venti e il mare obbediscono?» (Mt 8,27). Il mistero non sta nella parola, ma in «chi» dice quella parola: la parola di Gesù ha potere «creativo» di situazioni nuove, «illuminativo» di itinerari non ancora esplorati, perché lui è il «Figlio di Dio», come lo proclamano i due indemoniati di Gadara (Mt 8,29). Tutto il problema è di porsi liberi e nudi davanti a quella «parola», completamente disarmati, senza progetti e senza calcoli, non amando niente più di quella parola, neppure il denaro e la posizione sociale, sia pure prestigiosa, quale Matteo possedeva; perché, se amiamo qualcosa «più» di quella parola, vuol dire che non amiamo Cristo, o l'amiamo poco, perché quella «parola» è «lui». In questo senso si può vedere il tradimento che ciascuno di noi consuma, o rischia di consumare, tutte le volte non prende sul serio il problema della propria «chiamata»: essa non è solo quella alla fede, ma anche ai molteplici «ministeri» nella Chiesa, che trovano il loro vertice, non solo di ricchezza ma anche di unificazione, in quello «apostolico». Se Matteo non avesse risposto, non è che qualche altro avrebbe potuto sostituirlo: nessun altro avrebbe potuto scrivere il suo Vangelo. Se Dante fosse mancato, nessun altro avrebbe potuto essere Dante e scrivere la Divina Commedia. Neppure Dio può, o vuole, plagiare gli uomini, facendo sì che uno possa essere un altro! Matteo però non solo «seguì» immediatamente Cristo, ma volle esprimere la sua «gioia» e la sua gratitudine imbandendo per Gesù, i suoi discepoli e tanti altri amici un festoso banchetto, come risulta in maniera anche più evidente dagli altri Sinottici. Però «vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: "Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?"» (v. 11). 1 «pubblicani», in quanto appaltatorì di imposte, avevano cattiva fama e venivano assimilati automaticamente ai «peccatori»: di qui il frequente interscambio fra i due termini nel Vangelo. Ora, con tale gente, secondo la tradizione giudaica, così come con i pagani, non si poteva mangiare insieme:' di qui lo scandalo dei farisci nei riguardi di Gesù. E’ evidente che, se si fosse comportato in tal modo, Gesù avrebbe potuto al massimo creare un movimento di «spirituali», o di cosiddetti «puri», più per certi aspetti esteriori che interiori: infatti, il «cuore» dell'uomo chi lo può conoscere? E così per la quasi totalità degli uomini non ci sarebbe stata speranza di salvezza: il cristianesimo si sarebbe ridotto a una setta, che per di più si discrimina e discrimina solo in base a certi fatti «esteriori», più strumento di oppressione che di liberazione degli uomini da tutti i pesi, ivi compreso quello più schiacciante di tutti che è il peccato. E’ per questo che Gesù reagisce, scandalizzando anche di più i farisei, in quanto infrange tutte le barriere di tradizioni, di formalismi, di pretesi privilegi davanti a Dio: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatorí» (vv. 12 13). Con queste parole, che sono le più rivoluzionarie di tutto il Vangelo, Gesù capovolge la prospettiva dei farisei: se una preferenza c'è presso Dio, questa è solo per quelli che hanno più bisogno di lui, cioè per i «malati» e per i «peccatori». I «giusti», se qualcuno ce n'è al mondo, non interessano a Dio: essi infatti, proprio perché si ritengono tali, non hanno bisogno di lui, si costruiscono da sé, si fanno con le loro mani! 1 farisci, e la gente come loro, in pratica, sono «atei», perché impediscono a Dio di entrare nella loro vita e di renderli «giusti» secondo la sua misura, secondo il suo dono: essi cercano invece la «giustizia» dalle loro opere, come Paolo dirà dei Giudei del suo tempo (cf Rm 10,3). Dicendo che «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati» (v. 12), Gesù si riferisce non solo a tutti i malati fisici da lui guariti nello sfondo dei capitoli 8 9 (lebbrosi, ciechi, ecc.), ma anche ai «malati» spirituali, cioè a tutti coloro che hanno bisogno del perdono di Dio (cf 9,j.6): ognuno di noi, perciò, è incluso in questa premura del «medico» celeste che è Cristo. Anche se non abbiamo nessun merito davanti a lui, come pretendevano di averne i farisei, già questo basta perché egli si chini con più amore verso di noi. E questo ci renderà comprensivi verso tutti i fratelli, credenti e non credenti, ai quali ci accomuna questa situazione di peccato. Le parole, aggiunte qui dal solo Matteo: «Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio» (v. 13), sono l'esaltazione dell'amore perdonante di Dio, che i farisei invece mettono sotto accusa, contestando l'atteggiamento di «esagerata» benevolenza di Cristo, che oltre tutto portava con sé la violazione delle norme di segregazione conviviale con i «peccatori». Però nell'intenzione di Matteo sono certamente anche un invito a tutti i credenti a imitare l'atteggiamento di Cristo verso i lontani, o i fratelli traviati: l'amore, il perdono, lo sforzo di avvicinare e di comprendere chi ha mancato verso Dio, verso di noi o verso la società, sono la «liturgia» e il «sacrificio» più veri che possiamo offrire al Signore. Il tratto della Lettera ai Romani, in cui san Paolo porta l'esempio di Abramo come tipo ideale della giustificazione «per la fede», può fare da contrapposizione all'atteggiamento dei farisci, che Gesù smaschera spietatamente, come abbiamo visto, nel Vangelo. Abramo «ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara... Ecco perché gli fu accreditato a giustizia» (Rm 4,18 19.22). Tutto era contro di lui e contro la più elementare «ragionevolezza», quando Dio gli promise di dargli una «discendenza» numerosa al pari delle stelle del cielo (cf Gn 15,5). Eppure egli credette, «sperando contro ogni speranza» (v. 18): Abramo ha avuto il coraggio di farsi «costruire» tutto da Dio, di suo non portando nulla, neppure quello che, in fin dei conti, non è merito alcuno perché tutti normalmente lo possiedono, e cioè la potenza generativa: lui, invece, era vecchio e Sara sterile. Ha offerto a Dio la «disponibilità» di tutto se stesso, perché ogni «vanto» gli venisse dall'alto. Abramo ha preceduto Matteo nel lasciarsi guidare esclusivamente dalla «parola» di Dio, e ha preceduto tutti noi in un atteggiamento paradossale di fede, che dobbiamo fare nostro; proprio «noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazíone» (Rin 4,24 25). Cristo ha fatto molto di più che «mangiare insieme ai pubblicani e ai peccatori» (Mt 9,11): egli è «morto» sulla croce per i peccatori!

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Giovanni Paolo II

"Desidero esprimere la mia approvazione e il mio incoraggiamento a quanti, a qualunque titolo, nella Chiesa continuano a coltivare, approfondire e promuovere il culto al Cuore di Cristo, con linguaggio e forme adatte al nostro tempo, in modo da poterlo trasmettere alle generazioni future nello spirito che sempre lo ha animato"
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